Educazione

Educazione vs insegnamento: la differenza sta nella relazione 

Perché l’insegnamento diventi vera educazione bisogna dare spazio alla relazione   

Il concetto di educazione è cambiato nei vari decenni fino ad arrivare ad oggi, già da un po’ in realtà, in cui è piuttosto chiaro che implichi un altro concetto chiave: la relazione.

Non c’è educazione senza relazione. E mi riferisco soprattutto al contesto della scuola.

In famiglia, tranne dove ci sono disagi e problematiche serie, l’esistenza di una relazione tra genitori e figli si dà per esistente, nonostante alcuni tipi di relazione lascino comunque molto a desiderare.

A scuola, invece, si oscilla spesso tra i concetti di insegnamento ed educazione e non è sempre chiaro quale sia il giusto apporto dato dalla relazione che in ogni caso inevitabilmente si crea tra insegnanti e alunni. Talvolta, non sono chiari nemmeno i confini.

Dobbiamo allora riprendere alcuni concetti della storia della psicologia scolastica, per verificare quali obiettivi vogliamo ottenere:

  • Insegnare è trasmettere contenuti.
  • Educare è aiutare a sviluppare competenze per poter fare esperienza e apprendere abilità.

Molti insegnanti oggi sono in affanno. Anche senza il Covid, la DAD e tutte le difficoltà ad essi connesse, quello che c’era anche prima della pandemia erano i programmi didattici, le verifiche, le scadenze, gli esami, gli Invalsi.

Ora ci sono i programmi didattici, le verifiche, le scadenze, gli esami, gli Invalsi, il Covid e la DAD.

Ah! E le famiglie. Che spesso forniscono il loro contributo al problema, o perché sono assenti o perché sono invadenti.

Ma in sostanza, qual è il problema? Nella maggior parte dei casi l’ansia da prestazione e l’idea che la cosa principale sia stare al passo con ciò che “deve essere insegnato” come da programma ministeriale. Andrebbe anche bene preoccuparsi solo dei contenuti, se gli alunni fossero dei soldatini con le menti di robot. Però non è così.

Da un paio d’anni mi occupo dello sportello d’ascolto di una scuola media. Ho visto insegnanti, ragazzi/e e genitori.

E volete sapere qual è la cosa stupefacente? Che in realtà lo stress di stare al passo con i programmi didattici, la frustrazione di non raggiungere l’ideale di efficienza prefissato e l’ansia da prestazione, sono un problema di tutti. Ma proprio tutti tutti.
E in eguale maniera, tutti contribuiscono alla perpetuazione del problema. Tutti. Ma proprio tutti tutti.

Molti dei colloqui con i ragazzi avevano come oggetto l’ansia da prestazione e la sfiducia verso sé e gli altri. Molti lamentavano che gli insegnanti correvano pur di stare dietro al programma, talvolta arrivando ad arrabbiarsi se l’alunno poneva qualche domanda più del necessario semplicemente per capire, nemmeno approfondire.
Ma la verità è che molti ragazzi stessi avevano e hanno aspettative così alte sulla loro stessa prestazione, da perderci il sonno. Sono i primi ad essere inflessibili con loro stessi, anche in assenza di pressioni genitoriali o di reali risultati negativi. Vivono una forte competizione con i compagni e scarseggiano abbondantemente di autostima. Più di una volta mi sono dovuta confrontare con la percezione che avere 8 invece che 10 fosse un dramma.

I genitori sono, se possibile, ancora più insicuri dei figli. Non sanno come comportarsi. Hanno perso la fiducia nella possibilità di supportare lasciando libertà dentro a dei limiti concordati e molte volte sfociano nell’invadenza come tentativo di recuperare il controllo.
Questo alimenta l’insicurezza dei ragazzi e rinforza la convinzione di non essere abbastanza, che dipende ancora troppo spesso dal non fare abbastanza.

Gli insegnanti hanno un diavolo per capello. Sono continuamente sotto pressione per qualsiasi cosa: i genitori, il preside, i ragazzi, a volte anche i colleghi, e loro stessi.
Quello che ho visto è la volontà di ripristinare il proprio ruolo di essere umano che educa, che però viene facilmente schiacciato dai dubbi su quali confini mantenere e la difficoltà di sentirsi un’isola in un oceano che spinge in un’altra direzione.
Gli stessi insegnanti che invece invocano a gran voce la necessità di stare al passo, sono i primi a sentirsi frustrati e insoddisfatti per aver ridotto il loro importante ruolo a qualcosa di sterile e, peraltro, infattibile.

La scuola di oggi è una scuola che corre, o meglio, che rincorre un tempo che sembra svanire più lo si cerca di acchiappare.

La scuola può essere tanto di più oltre al programma scolastico e agli insegnamenti da trasmettere.

E ampliare il ruolo di quest’istituzione, non significa mettere in secondo piano le singole materie, né voler subissare di compiti chi già si trova con l’acqua alla gola.

Spostarsi da un piano di insegnamento a quello di educazione, significa respirare, guardare negli occhi, ascoltare e ritornare in contatto con il singolo, rispondendo a dei bisogni che esistono e che sono importanti.

L’educazione non può prescindere dalla relazione umana. Quando ci si muove dall’interno delle relazioni, invece che dall’esterno, allora si svolge il compito più importante, ovvero agevolare lo sviluppo di competenze che servono per la vita.
D’altra parte, l’abilità più importante che la scuola può aiutare a sviluppare, è quella di imparare ad imparare.
E gli insegnanti che educano, e ce ne sono, magari possono confermare che anche la trasmissione di insegnamenti diventa più semplice.

La scuola ha bisogno di tornare ad educare, non solo insegnare.

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Marianna Turriciano